mercoledì 24 settembre 2014

Petrarch's 1365 STRANGE PHOENIX was 'actually' a UNICORN (i.e. a single J-S conjunction)

I saw a strange phoenix, both its wings
clothed in crimson, and its head with gold,
solitary and alone in the wood,
I first thought its form heavenly and immortal
to the sight, till it reached the uprooted laurel,
and the fountain that the earth had swallowed:
all things fly towards their end:
seeing the leaves scattered on the ground,
and the broken trunk, and that dry spring,
it turned its beak on itself,
almost disdainfully, and in a moment vanished:
so that my heart burns with pity and love.

[Translation of the 5th vision in Petrarchan sonnet n. 323 (from site: www.poetryin translation.com)]

domenica 21 settembre 2014

PETRARCA, la FENICE del 1345 e la "STRANIA FENICE" del 1365

Francesco Petrarca (1304 - 1374)
Prima di passare ad altro ed archiviare foto e ricordi del recente viaggio in Provenza volevo fare qualche considerazione sul Petrarca, il grande poeta (il cui arco di vita coincise quasi esattamente con il periodo  del papato avignonese) che in quella regione francese studiò e visse a lungo.

Vi arrivò all'età di otto anni nel 1312, quando il padre - notaio aretino - decise di spostarsi ad Avignone, allora sede papale,  per sottrarsi agli scontri tra i guelfi ed i ghibellini della sua città. Dal 1316 al 1320 studiò diritto civile all'Università di Montpellier, tornò ancora in Provenza nel 1321 e 1324 mentr'era studente di giurisprudenza a Bologna e poi ancora nel 1326-1327, anno quest'ultimo in cui sembra incontrasse Laura, quella che sarebbe stata per sempre la sua musa ispiratrice.
Dopo vari giri per l'Europa, sollecitato dal suo amico Philippe de Cabassol, vescovo di Cavaillon, il Petrarca si recò nuovamente in Provenza, acquistò una casa a Fontaine-de-Vaucluse (un piccolo paese situato presso le ricche sorgenti de La Sorgue, affluente del Rodano ad Avignone) e qui visse - quasi ininterrottamente - dal 1337 al 1353. Fu qui, ascoltando le "chiare, fresche e dolci acque .." della Sorgue, fu in questo quindicennio che Petrarca compose alcune delle sue opere maggiori e molti dei sonetti e canzoni del suo Canzoniere. 

Ad attirare verso Francesco me, che non ho una conoscenza approfondita di lui ma che sono convinto di aver fatto una vera e propria scoperta decifrando la fenice come immagine allegorica delle congiunzioni Giove-Saturno multiple, cioè triple e doppie, è l'esser venuto a conoscenza del fatto che Petrarca ha scritto numerosi sonetti e canzoni in cui parla direttamente (qualche volta indirettamente ma chiaramente) del mitico animale.
Diversamente da Dante che, pur avendo assistito a cavallo degli anni 1305-1306 ad una delle più precise congiunzioni Giove-Saturno triple di tutti i tempi, parla/scrive poco della fenice (tanto poco da meritare i rimproveri di Cino da Pistoia, perchè contemplando Beatrice in Paradiso non aveva riconosciuto "l'unica fenice, che con Sion congiunse l'Appennino"), diversamente da Dante - dicevo - il Petrarca sembra compiaciuto di parlarne e scriverne molto, al punto che la figura di Laura e quella del mitico uccello a volte proprio coincidono.


La congiunzione Giove-Saturno del 1345 al confine Capricorno-Acquario
Iniziato probabilmente da giovane, un anno o due dopo la congiunzione Giove-Saturno del 1325, all'epoca della congiunzione del 1345 (grafici qui a sinistra) aveva ormai la maturità (41 anni) per scrivere della fenice proprio al tempo presente, mentre poteva direttamente osservare - notte dopo notte - i due pianeti in congiunzione (sonetto CXXXV e gruppo di sonetti dal CLXXXI al CLXXXV, quest'ultimo in particolare).

Mentre i sonetti CCX, CCCXX e CCCXXI vanno collocati probabilmente nell'arco temporale tra questa congiunzione G-S e quella di vent'anni dopo, la "canzone delle visioni" CCCXXIII va collocato senz'altro all'epoca dell'ultima congiunzione G-S che il Petrarca, ormai vecchio, ebbe modo di vedere: quella dell'ottobre 1365 nella costellazione della Bilancia, singola e definita perciò da lui "una strania fenice". Ma ecco i versi della V visione della cosiddetta "canzone delle visioni", il sonetto CCCXXIII:

Una strania fenice, ambedue l' ale
di porpora vestita e 'l capo d' oro,
vedendo per la selva, altera e sola,
veder forma celeste ed immortale
prima pensai, fin ch' a lo svelto alloro
giunse ed al fonte che la terra invola.
Ogni cosa alfin vola:
ché, mirando le frondi a terra sparse
e 'l troncon rotto e quel vivo umor secco,
volse in sé stessa il becco
La congiunzione Giove-Saturno singola di fine ottobre 1365
nella costellazione della Bilancia
quasi sdegnando, e 'n un punto disparse:
onde 'l cor di pietate e d' amor m' arse.

Il Petrarca dice qui chiaramente che "veder forma celeste ed immortale prima pensai", che si trattasse cioè di una durevole congiunzione G-S tripla, e di avere invece poi visto che essa si concludeva - spariva/finiva - rapidamente: non vi è infatti alcun cenno di 'resurrezione' di questa "strania fenice". E' questo un modo poetico, secondo me, di descrivere la veloce congiunzione Giove-Saturno singola del 1365, che - proprio perchè tale - Petrarca avrebbe dovuto assimilare ad un perfetto unicorno più che ad una "strania fenice". 

Ma lui forse non aveva letto Ildegarda di Bingen.. e gli arazzi del '500 sull'unicorno erano ancora là da venire: il mito dell'unicorno come allegoria delle congiunzioni G-S singole, sebbene antico, era meno presente nel medioevo di quello della fenice figura Christi: fu così che Petrarca parlo' per la congiunzione del 1365 di una "strania fenice", che muore e non risorge. 

lunedì 1 settembre 2014

PETRARCA's PHOENIX (1345)

Questa fenice, de l'aurata piuma
al suo bel collo, candido, gentile,
forma senz' arte un sì caro monile,
ch' ogni cor addolcisce e il mio consuma:

forma un diadema natural ch' alluma
l' aere dintorno, e  'l tacito focile
d'Amor tragge indi un liquido sottile
foco che m' arde a la più algente bruma.


La congiunzione Giove-Saturno che ebbe luogo nel 1345,
al confine tra le costellazioni del Capricorno e dell'Acquario

Purpurea vesta, d' un ceruleo lembo
sparso di rose i belli omeri vela:
novo abito e bellezza unica e sola.

Fama ne l' odorato e ricco grembo
d' arabi monti lei ripone e cela,
che per lo nostro ciel sì altera vola.

[Francesco Petrarca, Rime/Canzoniere, n. CLXXXV-185, Fabri ed., Milano 2006]