martedì 27 ottobre 2009

Triumphus Tertius - Hypnerotomachia Poliphili

Sono finalmente in grado di farvi vedere l'immagine del Triumphus Tertius dell' Hypnerotomachia Poliphili di cui vi avevo parla-
to qualche tempo fa: è quella qui sotto (tratta da H.P., Adelphi ed., vol. I, Milano 2006, pp. 170-171) ove si riconoscono agevolmen-
te sei unicorni che trainano un carro sul cui ripiano è seduta "una splendida ninfa". Secondo i commentatori dell'opera si tratta di Danae, la figlia di Acrisio, re di Argo, che il padre - per proteggerla - chiuse in una torre; ostacolo per superare il quale (e possedere la fanciulla) Giove si trasformò in una pioggia d'oro.



"Seguiva il terzo, divino carro trionfale con quattro mobili ruote simili in ogni particolare a quelle precedenti: erano di crisolito etiopico, fiammeggiante di auree pagliuzze ... Le sue lastre, applicate intorno nel modo suddetto, erano di verde eliotropia di Cipro punteggiata di minute gocce sanguigne, che dà potere sugli astri celesti, rende invisibile chi la porta e dona la divinazione. ... ... Il carro era trainato in pompa magna da sei fierissimi mono-
ceri dalla fronte cornuta ... Li cavalcavano sei verginelle, nei modi e col fasto delle altre: avevano abiti d'oro .. Sul piano del carro, al centro, era posto un prezioso seggio di diaspro verdeg-
giante, eccellente se unito all'argento, soccorrevole alle parto-
rienti e medicina dell'uomo casto. ... ... Vi sedeva a suo agio una splendida ninfa sontuosamente vestita d'oro tessuto in seta azzurra, .. Manifestava il piacere amoroso nell'atto di ammirare l'abbondanza dell'oro divino nel suo grembo, tra solenni onori e festosi applausi, come negli altri trionfi: sedeva con le folte chiome fluenti sul dorso, incoronata da un diadema d'oro tempestato di pietre multiformi." (da H.P. Adelphi cit., vol. II, pp. 181-182).

Come approfonditamente spiegavo nel precedente post sull'erme-
tica opera rinascimentale, post cui rimando per spiegazioni detta-
gliate sull'aspetto astronomico, l'interpretazione che io dò di questa immagine è che essa sia un modo cifrato, allegorico, di spiegare che una congiunzione Giove-Saturno multipla (tripla/
doppia) [allegorizzata qui "dalla splendida ninfa" Danae] arriva sempre preceduta, 'trainata', da una lunga serie di congiunzioni Giove-Saturno singole [allegorizzata qui dal traino dei sei "fierissimi monoceri", monokeros].

Quando, ad esempio, tra circa 230 anni tornerà la prossima congiunzione G-S tripla, a cavallo degli anni 2238-2239, essa sarà stata preceduta da ben 12 (dico dodici) congiunzioni G-S singole (cioè da dodici 'unicorni') tutte quelle verificatesi dopo la precedente G-S tripla, avvenuta nel 1981.

Significato perfettamente corrispondente a quello del terzo trionfo ritengo abbiano anche gli altri tre Triumphi che precedono e seguono il terzo, caratterizzati da immagini allegoriche diverse ma da struttura identica a quella del terzo trionfo.

venerdì 23 ottobre 2009

Ad Irene e a tutti gli altri dottorandi e laureandi che mi leggono

Solo poche righe per rassicurarvi sul fatto che io sono sì disponibile a darvi tutto l'aiuto possibile per portare avanti le ricerche che - autonomamente o da me ispirate - state conducendo, ma che prima che ci si veda o incontri dovete lavorare un po' in proprio ad approfondire quanto - e non è affatto poco - ho già scritto su questo blog, da febbraio in poi.

Come ho scritto già qualche tempo fa, in inglese mi pare, per trarre il massimo profitto dai posts di questo blog è bene farne una lettura ed uno studio sistematici, cronologicamente ordinati (quindi partendo dai primi di febbraio), perchè io stesso mentre vengo esponendo qui sto cercando di sistematizzare e correlare tra di loro scoperte e risultati nei vari ambiti, mentre nuove linee di ricerca vengono aprendosi.
Il che interpreto come riprova dell'esattezza della mia intuizione che le congiunzioni tra Giove e Saturno (osservate ed attese almeno da quattro millenni ad ogni ripetizione) rappresentano il solido fondamento astroNomico di un nuovo paradigma ermeneutico non solo storico-filosofico, ma - come ho già accennato e come preciserò - anche letterario.

lunedì 19 ottobre 2009

Abelard on the phoenix

Vorrei oggi mettervi a parte di un interessante brano sulla fenice che ho trovato in un libro di e su Abelardo (sì, Pierre Abélard, 1079-1142, quello della storia con Eloisa) di una decina di anni fa, comprato a metà prezzo qualche tempo fa. Si tratta di: Pietro Abelardo, Dialettica dell'amore Piemme ed., Casale Monferrato 1999 (trad., cura e introd. P. Cereda).

Scrive Abelardo (nel Sermone sulla Pasqua, p. 116 del detto volume):

"Se riferiamo misticamente a Cristo la natura del misterioso uccello (la fenice) ed i modi della resurrezione, vedremo che questi si corrispondono. Poiché si tramanda che questo uccello è unico, di esso non c'è né il seso maschile, né il femminile e non genera piccoli né nidifica. Quando capisce che sta per morire dopo moltissimi anni, prepara un nido ed un sepolcro di rami aromatici, come se volesse coprire con la fragranza il fetore del suo cadavere. Si dice che allora si collochi su questo letto e, nel sole che brucia questi aromi, si sciolga in cenere; dopo alcuni giorni, (...) vestendosi a poco a poco di ali e di piume, si dice che torni allo stato originario. Tutte queste cose non sembrano convenire se non a Cristo. Egli è l'unico uccello, non ce n'è uno uguale, né si lega ad alcuno. Non conosce uno uguale né per dignità né per generazione, si adatta meravigliosamente sia all'eccellenza che alla verginità di Cristo. Chi infatti è unico e così singolare in dignità come Cristo? ... ... ...
La cremazione della fenice non si discosta dal mistero di Cristo (...). Risorgendo, la fenice non conosce la corruzione della carne, poichè in quella gloria di resurrezione ''non si prende né moglie, né marito, ma si è come angeli nel cielo'' (Mt 22,30)"

Quel che è qui evidente ed importante è, a parer mio, che il filosofo passato alla storia non solo per la tragica storia d'amore con Eloisa, ma anche per la sua 'continua ed insaziabile ricerca della verità', sceglie "di far coincidere l'immagine del Salvatore con il mitico animale" (op. cit., p.70) .
Ma su questo e sulla sua quinta, appassionata lettera ad Eloisa, scritta - guarda caso - nel 1127 (op. cit., p. 41) avremo sicuramente modo di ritornare.

giovedì 15 ottobre 2009

The puzzling Naram-Sin's victory stele

Lasciando per un momento da parte le tematiche storico-filosofiche degli ultimi secoli, facciamo un salto indietro nel tempo di oltre quattromila anni e laterale, verso est, di quattro o cinquemila chilometri per parlare di una ben eseguita e ben conservata stele di calcare rosa ritrovata nel 1898 da un archeologo francese a Susa, nella regione iranica anticamente denominata Elam (a destra dell'attuale Kuwait), ed ora conservata al Louvre di Parigi (immagine qui a sinistra).
Secondo quanto a più riprese è stato inciso direttamente sull'eccezionale manufatto, la stele (alta ca. 2m e larga 1.5m) fu portata a Susa come bottino di guerra nel XII sec. a.C. da un re elamite, ma è originaria di Sippar (a nord di Babilonia) e celebra la vittoria del quarto re della dinastia accadica, Naram-Sin (nipote di Sargon I, regnò dal 2255 al 2219 a.C.) sulla popolazione dei monti Zagros, quei monti a nord-est della Mesopotamia da cui scendono una serie di affluenti di sinistra del Tigri.

Come si vede nell'immagine precedente, la famosa stele (datata a circa il 2230 a.C.) rappresenta Naram-Sin che, in atto di salire verso i monti Zagros e adornato di un elmo con le corna (emblema di potere divino), troneggia sul suo ordinato esercito e sopra i suoi nemici sconfitti guardando in alto - lui e tutte le figure della scena - verso una coppia di corpi celesti visibili in alto. Secondo gli studiosi è questa probabilmente la prima volta nella storia che un re è stato rappresentato come un dio. Anche da altre iscrizioni ufficiali è noto infatti che il nome di Naram-Sin, durante il cui regno l'impero accadico raggiunse l'apice del suo sviluppo, era preceduto da un determinativo, da una qualificazione divina.

Vi starete chiedendo a questo punto perchè ho pensato di scrivere questo post sulla stele del nipote di Sargon I. La qual cosa è presto detta: mi hanno incuriosito quei due corpi celesti, che qualche commentatore qualifica come stelle (".. in cui due stelle risultano chiaramente adorate da un sacerdote e da un gruppo di fedeli.") e qualcun altro come il disco solare ripetuto più volte (".. above it [the peak] the solar disk figures several times, and the king pays homage to it for his victory." oppure altrove "Above Naram-Sin, solar disks seem to radiate their divine protection toward him, while he rises to meet them.").

Bene. Io, forse perchè convinto della grande importanza del fenomeno delle congiunzioni Giove-Saturno in tutte le tradizioni storico-religiose del vicino oriente, sono andato a verificare e guardate cosa ho trovato.
Ho trovato che tra i primi di gennaio e la fine di luglio dell'anno 2230 a.C., quindi proprio durante il regno di Naram-Sin e all'epoca della realizzazione della famosa stele, ebbe luogo una congiunzione Giove-Saturno multipla, doppia per l'esattezza.
Ecco, quel che ora io penso e che propongo come nuova interpretazione alla comunità degli studiosi degli antichi imperi mesopotamici, è che le due stelle che figurano nella stele della vittoria di Naram-Sin rappresentano in realtà - con grande probabilità - i due pianeti Giove e Saturno in congiunzione, la congiunzione G-S doppia i cui due allineamenti si verificarono il 19 gennaio ed il 23 luglio del 2230 a.C.
Detto in altre parole, la scena riportata nella stele rappresenta l' unzione divina di Naram-Sin ad opera della congiunzione fenicea Giove-Saturno del 2230 a.C., una sorta di sua elezione e proclamazione a messia degli accadi.
Anche se, ironia della storia, il grande impero che si estendeva dall'Anatolia e dalle coste del Mediterraneo fino al Golfo Persico e all'altopiano iranico, sopravviverà a Naram-Sin meno di cinquant'anni. Com'è successo altre volte nella storia ad imperi e Reich già ritenuti millenari.


martedì 13 ottobre 2009

Delle cose sensibili e di quelle intellegibili ovvero della carne e dello spirito

Questa sera vorrei comunicarvi delle riflessioni che faccio da così tanto tempo che le loro conclusioni sono ormai per me punti fermi e risultati acquisiti, consolidati semmai da letture recenti. E' utile che vi dica quali sono queste riflessioni e questi risultati, così che anche voi possiate giovarvene nelle vostre ricerche.

Dunque. Nella storia dello sviluppo delle capacità umane è venuto un momento in cui ci si è resi conto che la realtà effettiva non sempre coincideva o poteva coincidere con quanto si vedeva attraverso gli occhi o, più in generale, si percepiva attraverso i sensi. Ci si rese conto in altre parole che oltre ed al di là della realtà percettiva v'è spesso una realtà effettiva o strutturale diversa dalla prima e che dunque la sola apparenza talvolta inganna. Per giudicare completamente le cose, accanto e oltre agli occhi corporei, fisici, della carne, è dunque necessario avere anche una capacità di valutazione, di astrazione dal percepito, insomma un 'occhio' del pensiero, cioè dello spirito ovvero dell'intelletto.

Ora prima che vi dica a quando io colloco questo momento e a quale ambito cognitivo (che per altro avrete già intuito) vedo collegata questa peccaminosa scoperta, preciserò che su quanto di generale ho detto sopra, su quella duplicità mentale è naturalmente d'accordo anche Kant quando parla - nel suo modo 'neutro' e senza stare a precisare l'ambito del suo discorso - di cose sensibili e di cose intellegibili, ovvero di sensibilità ed intelletto.
Scrive infatti Heidegger in Kant e il problema della metafisica, p. 41 ed. Laterza:
"...Kant, sia nell'introduzione alla Critica della ragion pura, sia nella parte conclusiva, oltre ad enumerare semplicemente le due doti basilari, ne dà anche una caratterizzazione degna di nota: la sensibilita' e l'intelletto; mediante il primo gli oggetti ci sono dati, mentre mediante il secondo vengono pensati>>.

Ora, poichè io - diversamente da quanto Kant modestamente pensava (cioè che tutti gli uomini dopo di lui secondo i suoi dettami avrebbero ben limitato l'applicazione della loro ragione) - non penso affatto di limitare i campi di applicazione della mia ragion pura, passerò a parlarvi del tempo e dell'ambito nel quale sorse quella convinzione e fu fatta quella sensazionale scoperta sull'apparenza che inganna.
Secondo me, come avrete capito dalle immagini che ho messo a corredo del testo, l'ambito fu quello astroNomico ed il tempo fu il VI sec. a.C., l'epoca di Anassimandro, Ferecide, Anassimene, Pitagora, .. , epoca che a parer mio rappresenta il vero periodo assiale dell'umanità.
La scoperta peccaminosa consistette in questo, che osservando bene i pianeti, annotandone la posizione sera dopo sera, per mesi, ci si accorse che essi - invece di muoversi su un determinato sfondo stellare ordinatamente da ovest verso est - ogni tanto esibivano degli strani comportamenti di ritorno all'indietro, verso ovest (cioè verso destra per osservatori del nostro emisfero), talvolta addirittura formando un cappio, come quello riportato nella seconda foto qui a sinistra. Quel cappio che, diversi secoli dopo, s. Paolo chiamerà "il laccio del Maligno" (2Tim 2, 26).
All'inizio del V secolo a.C., cioè al tempo della giovinezza di Parmenide, già ci si interrogava dunque in Grecia su quale realtà strutturale, su quale aletheia poteva rendere conto di e spiegare gli strani fenomeni osservati (doxa) nella cinetica planetaria (cfr. immagini).
V'è da dire, comunque, che i greci non furono i primi a porsi questo genere di domande, perchè molto probabilmente prima di loro se l'erano già poste egizi, indo-iranici e forse cinesi. Come attesta la provenienza da queste aree culturali dei miti della fenice e dell'unicorno.
Ma su queste questioni, sulle implicazioni e significati astroNomici della fenice e dell'unicorno (che non conosce moto retrogrado), sull'astronomia nell'Antico e nel Nuovo Testamento (es. Figlio dell'uomo, dialogo notturno Gesù-Nicodemo del vangelo di Giovanni, alcuni contenuti delle lettere di s. Paolo, ..) torneremo nei prossimi messaggi.

venerdì 9 ottobre 2009

Esserci e kairos in Heidegger

Leggendo il dibattito di Davos del marzo 1929 tra E. Cassirer e M. Heidegger sull'interpre-
tazione di Kant (cfr. App. II in Kant e il problema della meta-
fisica di Heidegger, Laterza ed.), ho trovato un brano molto interessante del filosofo della Foresta nera, che chiari-
sce bene come a lui fosse mol-
to presente, e per lui impor-
tante, tutta la tematica dei momenti cairotici della temporalità dell'esserci, cioè dell'esistenza umana.

Disse/scrisse dunque Heidegger in quei giorni di fine marzo 1929:

"A determinare l'essenza di quello che chiamo esserci non è sufficiente il solo contributo di quello che si definisce come spirito e neppure di quello che si chiama vita; l'importante è invece l'unità originaria e la struttura immanente della relazionalità di un uomo che entro certi limiti è incatenato in un corpo e nell'esser incatenato nel corpo si trova in una propria forma di legame con l' ente in mezzo al quale si trova, non come uno spirito che vi guarda dall'alto, bensì in quanto l'esserci, gettato in mezzo all'ente, compie liberamente un'irruzione nell'ente; irruzione che è sempre storica e, in ultima analisi, contingente. Così contingente che la forma suprema dell'esistenza dell'esserci si può ricondurre a pochissimi e rari istanti di quella durata dell'esserci che intercorre tra la vita e la morte; soltanto in pochissimi istanti infatti l'uomo vive al culmine della sua propria possibilità, mentre per il resto si muove sempre in mezzo al suo ente.
La questione del modo d'essere di quello che si trova nella filosofia della forma simbolica di Cassirer, la questione centrale della costituzione interna dell'essere, è quello che determina la metafisica dell'esserci .."
Chissà se quando qui parlava di storica irruzione dell'esserci nell'ente pensava a quel che egli nel 1927 avrebbe voluto scrivere, ma non avrebbe mai più scritto, nella II parte di Essere e Tempo, o alla chiamata/illuminazione di Nietzsche del 1881 o quella di Kant del 1782 o a cos'altro .. Forse, più probabilmente, pensava a quel che già si preparava a scrivere per il 1938, 1939, 1940 o 1941.